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Clan Conan ‒ Fornovo 1495

FORNOVO 6 LUGLIO 1495

“… onde che a Carlo re di Francia fu licito pigliare la Italia col gesso”. Le abitazioni requisite dai francesi per ospitare le soldatesche venivano indicate col gesso. Con questa metafora, aspra e senza spazio per le repliche, Machiavelli descrisse la discesa di re Carlo VIII di Francia volta alla conquista del Regno di Napoli. L’Italia nel fiore del suo sviluppo culturale e sociale, patria del mestiere delle armi, mostrava all’Europa il suo vero volto, quello di un’entità territoriale divisa, incapace di far fronte comune contro una minaccia esterna. Quali furono le cause che consentirono al monarca francese di attraversare indisturbato i nostri territori e di conquistare in capo ad un anno l’obiettivo della sua spedizione? 

L’Italia si presentava all’epoca come uno mosaico composto da una moltitudine di potentati in perpetuo attrito gli uni con gli altri e la pace, garantita da trattati di dubbia efficacia, nascondeva un tappeto d’inganni e sotterfugi, di sordide macchinazioni politiche per accrescere il proprio potere a scapito dei rivali. L’incapacità di organizzare un’adeguata resistenza contro l’invasore fu senza dubbio la prima causa della permeabilità dei nostri confini.

Durante il Quattrocento si diffuse nella nostra penisola la dottrina bellica conosciuta come distruzione limitata, ovvero evitare il dispendio di risorse umane e finanziare in inutile battaglie d’attrito. Questo ha fatto nascere la convinzione che “gli Italiani non combattono”, che si esercitino in guerre da parata, ma si tratta di pregiudizi infondati. Non siamo stati sconfitti dai francesi per mancanza di valore. L’atteggiamento tenuto dai francesi confuse e spiazzò i contemporanei. A farne le spese furono i civili, investiti dalla “ferocia franzese”, una serie di eccidi indiscriminati sui vinti. Contro la “guerra totale” imposta dagli invasori, nulla poterono le tattiche dilatorie e soprattutto l’inerzia dei nostri condottieri.

A supporto di questa dottrina aggressiva Re Carlo poté avvalersi del parco d’artiglieria più potente d’Europa, grazie al quale frantumò le difese dei pochi che si opposero. L’innovazione del cannone fuso in un unico pezzo e il ricorso al munizionamento in metallo, garantirono alle nuove armi un potere di penetrazione sconosciuto alle artiglierie precedenti, mutando nei secoli a venire l’arte ossidionale.

Chi poteva opporsi a un simile nemico? Le uniche entità in grado di contrastare Carlo erano il Ducato di Milano, La repubblica di Venezia, la Signoria di Firenze, lo Stato pontificio e il diretto interessato, il Regno di Napoli. Ludovico Il Moro, reggente del ducato, garantì il passaggio per le sue terre e accompagnò il re con il velato intento di perseguire i propri interessi, per poi abbandonarlo quando fu evidente che il transalpino avrebbe perorato solo la sua di causa; la Serenissima optò per la neutralità, I Medici di Firenze, capitanati dal meno illustre figlio di Lorenzo il Magnifico, Piero, dapprima cercarono di opporre una tiepida resistenza poi, alle prime avvisaglie di sventura, optarono per la via diplomatica contribuendo addirittura alle spese di guerra dell’invasore, soluzione che alimentò il malcontento già suscitato dalla propaganda ostile del Savonarola.

Superata la Toscana lungo la via litoranea l’armata francese era alle porte dello Stato Pontificio. Gli Orsini al soldo degli Aragonesi invece di attestarsi a difesa diedero pessima prova di loro, finendo a contrattare separatamente la pace col nemico. Inerme e alle prese con le faide interne alimentate dall’avversa famiglia dei Colonna, al papa Alessandro VI Borgia non restò altro da fare che cercare riparo a Castel S. Angelo mentre il rivale violava i suoi confini. Il 2 settembre l’armata francese aveva valicato il Monginevro e ora, dopo appena quattro mesi i suoi vessilli garrivano tra le strade di Roma.

Alle sole truppe napoletane, comandate da Ferrandino, figlio del re Alfonso II, toccava il fardello d’impedire al francese di compiere l’impresa.

Ferrandino ora “Ferrante II” Re di Napoli dopo che il padre aveva abdicato in suo favore fuggendo in Sicilia, rappresentava l’ultimo baluardo contro i transalpini. Poté poco e male, disperdendo le sue risorse in distaccamenti sconfitti o resi inermi, logorato dalle lotte intestine dei baroni appartenenti alla fazione antiaragonese e patendo per la reazione dei propri sudditi che aprirono le porte agli invasori per timore di ritorsioni e per lo scontento verso i propri governanti.

Le truppe napoletane combatterono null’altro che la popolazione che avrebbero dovuto difendere. L’ennesima disgregazione dei suoi nemici portò Carlo VIII a entrare indisturbato il 22 febbraio a Napoli, senza armatura e con un falcone da caccia sul braccio, a simboleggiare non un atto di guerra ma quasi una passeggiata di piacere.

I signori d’Italia a questo punto non poterono sentirsi estranei ai fatti.

Ludovico il Moro pentito per la sua doppiezza e per le incursioni del Duca di Orleans a Novara, volto a restaurare il nipote Galeazzo al suo posto, decise di fare causa comune con la Serenissima, stringendo un’alleanza chiamata Lega Santa comprensiva anche dello Stato pontificio, degli Aragonesi di Spagna e del Re d’Inghilterra. La Lega nacque formalmente con l’intento dichiarato di aggredire i turchi, cosa smentita dagli stessi collegati che informarono prontamente il Sultano Bayezid del suo reale intento, prima di procurarsi altri nemici.

Carlo VIII comprese immediatamente la gravità della situazione. Lasciò un forte presidio nei territori appena conquistati e invertì la marcia per non vedere interrotte le proprie linee di comunicazione. Il regno di Napoli peraltro si stava dimostrando più difficile da governare che da conquistare. Con un esercito forte di 10,000 uomini e 60 bocche da fuoco il re riprese la via del Nord, pronto a forzare qualsiasi resistenza.

Venezia si pose a capo della Lega schierando il suo capitano generale il marchese di Mantova Gian Francesco Gonzaga alla testa delle truppe alleate, circa 20.000 uomini, il doppio degli effettivi, un numero sufficiente per schiacciare le truppe francesi.

Il punto predestinato per lo scontro era la Val di Taro ove effettivamente Carlo si fece trovare. Il piano piuttosto ardito degli italiani era quello di vanificare l’impeto della cavalleria pesante nemica avvolgendo i fianchi dello schieramento avversario.

A tal uopo il marchese, anche se molti attribuiscono il piano al più esperto Ridolfo Gonzaga, organizzò tre battaglie di pari grandezza,  rispettivamente per affrontare l’avanguardia, il centro e la retroguardia nemica con le salmerie. Dietro la prima linea organizzò una robusta riserva con la stessa quantità di uomini d’arme a cavallo pronti a rinnovare l’assalto ai francesi e a coprire eventuali cedimenti. Come ulteriore provvedimento la cavalleria leggera balcanica, i celebri Stradiotti, furono spediti sulle colline per aggredire alle spalle i francesi, chiudendoli in una morsa fatale.

La storia c’insegna che i piani troppo complessi come questo sono spesso vanificati dal primo contatto col nemico. Per la sua riuscita era necessario un perfetto coordinamento tra ali, centro e riserva e un tempismo perfetto della manovra aggirante degli Stradiotti.

Il clima sfavorì soprattutto i collegati. L’insolita pioggia torrenziale agli inizi di luglio ingrossò le acque del Taro, di solito guadabile con estrema facilità in questo periodo dell’anno, e trasformò la terra in fango, smorzando ulteriormente l’impeto di chi era costretto a guardare il fiume con l’acqua fino al petto i fanti, al garrese i cavalli. Il terreno molle rese ininfluenti anche le bocche da fuoco.

Le difficoltà nell’emergere dal fiume causarono l’arrivo alla spicciolata dei reparti italiani che, malgrado la presunta superiorità numerica iniziale, combatterono in piccoli gruppi facilmente respinti dal nemico. Malgrado il valore dimostrato dai nostri uomini d’arme, i francesi riuscirono a farli ritirare, seppure con ordine al di là del fiume. L’azione combinata degli svizzeri e della cavalleria rappresentava un muro insormontabile anche per le fanterie italiane che, guadato il Taro, furono in breve disperse. Gian Francesco radunati i cavalieri tentò un ulteriore assalto anch’esso senza successo.

Gli Stradiotti nel frattempo dando credito alle voci sulla loro inaffidabilità in battaglia invece di attaccare il centro nemico, si riversarono sulla retroguardia, in difficoltà per l’attacco dell’ala sinistra italiana. Sbaragliata la fanteria a protezione del bagaglio, invece di cercare nuovi nemici, i balcanici si tuffarono sulle salmerie, avidi di bottino.

Un evento singolare avrebbe potuto cambiare le sorti della battaglia assegnando gli allori della vittoria ai nostri, l’intervento tardivo ma salvifico del seguito di re Carlo, scongiurò la caduta del sovrano, raggiunto da un drappello di cavalieri nemici, filtrati attraverso le maglie del suo schieramento.

Perse le salmerie e diminuita la pressione sul resto della linea i francesi proseguirono la loro marcia senza essere tallonati dagli italiani, spossati da un’ora di feroci combattimenti.

Il sacrificio in vite umane fu alto per i nostri, anche in virtù della pratica francese di non dare quartiere ai cavalieri disarcionati, facendo salire a 400 i nostri armigeri caduti, per un totale di 2000 effettivi. I francesi persero invece 1200 uomini, di cui solo 40 gendarmi. Molti caduti per la difesa delle salmerie.

Ad aggravare la situazioni per gli italiani fu la perdita di numerosi combattenti illustri quali Ridolfo Gonza. La consuetudine italiana di partecipare ai combattimenti in prima linea dei nostri condottieri si rivelò fatale per il coordinamento dell'esercito, immobilizzato dalla perdita dei suoi vertici.

Gian Francesco Gonza si ritenne non vincitore ma nemmeno vinto, avendo conservato l’integrità del suo esercito e avendo impedito a Carlo VIII di ritirarsi indisturbato dall’Italia. Molti negli anni hanno considerato un “pareggio” la battaglia di Fornovo. Uno sguardo più critico e meno campanilista ci rivela che l’obiettivo della Lega Santa era molto più ambizioso, e il suo mancato raggiungimento spalancò le porte alle potenze europee che, negli anni a seguire, trasformeranno il nostra paese nel terreno di scontro preferito per stabilire la propria supremazia nel continente.

“Il giardino d’Europa”, così apparirà il nostro paese ai contemporanei, il pregiudizio negativo sulle nostre virtù belliche che attraverserà fino ai nostri giorni è però infondato. I nostri cavalieri si battevano e con valore, ma a mancare stavolta non fu la fortuna, ma la coesione. Un’Italia disunita, frammentata in tante realtà distanti tra loro, soffrirà nei secoli a venire la perdita della sua indipendenza, sacrificata sull’indegno altare del proprio interesse personale.

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