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  • Festival: dal 30/10 al 02/11 - Mostre: dal 18/10 al 02/11

Battaglia del Trebbia 218 A.C.

 

Uscita sconfitta dalla prima guerra punica sul suo stesso terreno, quello marittimo, Cartagine è costretta a mutare la sua politica estera. La perdita di colonie strategiche quali Sicilia e Sardegna, fanno gravitare i suoi interessi intorno alla penisola iberica, territorio ancora estraneo alle mire espansionistiche capitoline.

 

Non ci vorrà molto affinché i contrasti tra le due potenze egemoni del mediterraneo si riaccendano. A provocare la ripresa delle ostilità ci pensa un giovane generale cartaginese di nome Annibale. Il padre, Amilcare Barca, ha affrontato i romani nel conflitto precedente. I Barcidi sono alimentati da un profondo odio verso l’Urbe e sono desiderosi di rivalsa. Il casus belli lo offre la questione di Sagunto in Spagna, città sotto l’influenza romana che rappresenta un’anomalia rispetto agli accordi intercorsi circa le reciproche sfere d’influenza. Le pertinenze cartaginesi si estendono a sud del fiume Ebro mentre la città di Sagunto si trova ben sotto il tale limite.

 

L’assedio posto da Annibale alla cittadina provoca l’inevitabile reazione romana. Nonostante le sofferenze patite nello scontro precedente, entrambe le parti sono desiderose di chiudere la questione in modo definitivo.

 

Dopo aver sconfitto i cartaginesi sul mare, Roma confida che la potenza dei suoi eserciti possa facilmente sbarazzarsi della nuova minaccia, commettendo un grave errore di valutazione. La sua strategia è quella d’intercettare il nemico inviando un’armata consolare al comando del console Publio Cornelio Scipione in Spagna e contemporaneamente di portare la guerra in casa del nemico, comandando il console Tiberio Sempronio Longo con l’altra armata, peraltro più consistente, in Africa.

 

La mossa risulta inadeguata perché il cartaginese, conquistata la città, intraprende la sua celebre marcia attraverso le Alpi per combattere il nemico sul suolo italico. La manovra audace e inattesa seppur densa di pericoli per l’enorme difficoltà di far passare un esercito attraverso valichi impervi d’inverno e per le incursioni della tribù locali ostili degli Allobrogi, garantisce al punico l’iniziativa strategica.

 

Avendo studiato l’epopea del re Epirota Pirro che combatté contro i capitolini anni prima senza averne ragione, Annibale intuisce che l’unico modo per fiaccarne la potenza è quello di sottrargli il vitale supporto degli alleati, facendo leva sul sentimento indipendentista delle popolazioni sottomesse e sul loro desiderio di rivalsa. Il terreno è particolarmente fertile con le tribù galliche del Nord che ingrossano, velocemente, le fila dell’esercito cartaginese ridotto allo stremo dalla marcia forzata.

 

L’armata di Scipione nel frattempo si ritrova invischiata nella soppressione della ribellione dei galli Boi e Insubri e, dopo aver appreso della manovra di Annibale, prende contatto con l’avversario nei pressi di Lomello, nel territorio di Vercelli.

 

Quella che accade è solo una scaramuccia ma in essa ci sono i prodromi di quello che accadrà a breve. Sia il console sia il suo avversario decidono di esplorare la zona con la cavalleria e le truppe leggere. Lo scontro volge a favore delle armi cartaginesi. Scipione, ferito, viene tratto in salvo dal figlio, un altro Scipione le cui sorti contro lo stesso nemico saranno ben diverse.

 

Il Console decide di abbandonare le pianure avendo intuito la superiorità della cavalleria avversaria e aspetta il collega di ritorno dalla Sicilia dopo la mancata invasione africana trincerandosi alle pendici degli Appennini nei pressi del fiume Trebbia.

 

Annibale non riesce a provocare a battaglia i capitolini e quindi non può chiudere la partita prima che le armate consolari si riuniscono, però ottiene l’adesione di molte tribù galliche del Nord e la defezione di contingenti ausiliari nel campo nemico, scoraggiate dall’inattività romana.

 

L’arrivo del giovane console nel teatro delle operazioni, nonostante le grandi attese che i capitolini rivestivano nel congiungimento delle due armate, si rivela disastroso. Il vecchio Scipione, avendo saggiato le capacità di Annibale esorta il collega a lasciar trascorrere l’inverno addestrando le truppe per aumentarne l’efficacia. L’attendismo mal si coniuga con il carattere irruente di Sempronio Longo che, a causa di un modesto successo ottenuto in una scaramuccia contro le stesse truppe che avevano sconfitto il suo collega, si convince di poter battere il cartaginese.

 

Annibale, conoscendo il carattere impetuoso dell’avversario, decide di provocarlo a battaglia. Una delle notti più gelide dell’anno accompagna un’alba di sangue. I cartaginesi hanno combattuto il freddo notturno intorno a grandi fuochi con i corpi cosparsi di olio, e di primo mattino si sono già rifocillati. A questo punto Annibale invia i cavalieri Numidi a provocare la reazione romana che non tarda ad arrivare. Il console fa uscire dal campo tutto l’esercito senza che i soldati abbiamo fatto colazione e li costringe a guadare il fiume Trebbia, peraltro ingrossato da una piena del giorno precedente. L’acqua gelata che arriva fino al petto degli uomini li lascia intirizziti e incapaci di brandire le armi. Anche le truppe leggere si trovano immediatamente a mal partito contro i loro avversari diretti.

 

Lo schieramento dell’esercito romano è quello classico del periodo repubblicano. I manipoli di fanteria pesante al centro preceduti dalle truppe leggere. Ai fianchi delle legioni le truppe alleate italiche e alle estremità la cavalleria, un totale approssimativo di 40.000 fanti e 4.000 cavalieri. Il cartaginese conoscendo fin troppo bene le prevedibili tattiche romane pone al centro i galli, le sue truppe sacrificabili perché facilmente rimpiazzabili, quelle che pagheranno un alto tributo di vite umane nel tentativo di frenare la pressione romana. Ai lati troviamo la fanteria iberica e i lancieri africani, supportati dai pochi elefanti sopravvissuti alla traversata delle Alpi. Sul fianco sinistro invece colloca gli sfuggenti cavalieri Numidi con l’intento di molestare la cavalleria avversaria evitando il corpo a corpo e la cavalleria gallica, con lo scopo di sbandare i cavalieri romani disordinati dall’intervento della cavalleria leggera. Sul lato destro invece troviamo la cavalleria iberica, sia leggera sia media, superiore in ogni specialità a quella nemica, l’esercito conta circa 28.000 fanti e 10.000 cavalieri, più gli elefanti. Con grande astuzia nasconde 1.000 cavalieri Numidi e 1.000 fanti leggeri agli ordini di Magone nella bassa vegetazione a ridosso del fiume con lo scopo di aggredire i romani alle spalle una volta che la cavalleria, sbarazzatasi della controparte, stringesse i fianchi nemici in una mossa a tenaglia. L’andamento dello scontro è quello previsto da Annibale. La fanteria leggera romana è costretta a cedere terreno contro i suoi avversari diretti, lo stesso accade sui fianchi dove i capitolini sono travolti per l’azione combinata dei pachidermi e della superiore cavalleria punica.

 

Le legioni al centro procedono con grande fatica sia per il freddo patito sia per la mancanza di energie per non essersi rifocillati. La morsa cartaginese comincia a stringersi. Inizia il massacro. I soldati non possono affrontare chi gli sta di fronte perché sono contemporaneamente costretti a difendersi dagli assalti sul fianco. È in questo momento che la trappola di Annibale si chiude con l’intervento di Magone e delle sue truppe alle spalle del centro romano. La manovra è completa. Dalla carneficina riescono a salvarsi soltanto in 10.000, compreso il console Sempronio Longo, sfondando il centro composto dai Celti per rifugiarsi a Piacenza, mentre le perdite tra le fila cartaginesi, riguardano soprattutto i Celti, sacrificio ampiamente compensato dall’adesione quasi totale di tutte le tribù dell’Italia settentrionale.

 

Nella prima battaglia campale combattuta sul suolo italico, i romani avevano subito una cocente sconfitta. Prima che il loro desiderio di rivalsa potesse dirsi appagato, tantissime vite dovranno essere sacrificate, e Roma ricorderà per sempre il terrore rappresentato dalla presenza del generale cartaginese nel suo territorio.

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