• Comune di Lucca
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  • Con il patrocinio di: Regione Toscana, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Consiglio Nazionale delle Ricerche
  • Festival: dal 31/10 al 03/11 - Mostre: dal 19/10 al 03/11

La battaglia di Clastidium

La battaglia di Clastidium (la moderna Casteggio) venne combattuta nel 222 A.C.. I Romani si stavano evidentemente preparando ad un secondo scontro con la potenza rivale, Cartagine. In questo contesto era indispensabile assicurarsi le vie di ingresso alla penisola, come la strada che passava per Casteggio, conquistando il controllo del fiume Po. La zona era in quel momento in mano ai Galli Insubri. I Romani avevano un vecchio conto da regolare con I Galli, una delle poche popolazioni che aveva duramente sconfitto Roma. Erano particolarmente agguerriti e soprattutto si vendevano come mercenari. Era quindi prevedibile che un potenziale esercito invasore avrebbe potuto facilmente includere i Galli nel suo esercito. La campagna che portò alla battaglia di Casteggio era iniziata l’anno prima. La guerra tra quelle popolazioni e Roma si era rivelata un fallimento e, dopo una serie di sconfitte, i Galli Insubri avevano proposto un trattato di pace, che a Roma, però, non bastava. Il Senato romano voleva la resa, e aveva rifiutato l’offerta. Non rimaneva altro che combattere una seconda campagna e sperare nella fortuna di una battaglia.

 

La campagna del 222 iniziò con un attacco in forze dei Galli ad un castrum romano, un accampamento fortificato, localizzato presso Clastidium, la moderna Casteggio. I due consoli in carica erano Scipione e Marcello. Scipione procedette a devastare il territorio dei Galli Insubri, mentre Marcello si precipitò a proteggere il castrum, che serviva come base per le campagne contro i Galli nella pianura padana; ma che  era stato costruito soprattutto per controllare la principale via di accesso al sud che costeggiava gli Appennini. Le notizie sulla battaglia sono scarse e frammentarie. Gli storici sono, però, concordi nel riferire l’episodio culminante: di fronte ai due eserciti schierati, il console Marcello identificò il capo dei Galli, il re Viridomaro, e lo sfidò ad un duello singolo davanti a tutti i combattenti. I Romani non combattevano nei singoli duelli: si dava per scontato che individualmente i guerrieri celtici fossero imbattibili. Ovviamente Viridomaro accettò subito: sarebbe stato comunque impossibile rifiutare, e comunque ogni battaglia fra Celti iniziava con una serie di combattimenti individuali fra i guerrieri scelti. Ma a questo punto avvenne l’impensabile. Il console Marcello riuscì a sconfiggere e a uccidere Viridomaro. Gli tolse l’armatura e la mostrò in mezzo al campo di battaglia. vuoto ad entrambi gli eserciti. Molte battaglie sarebbero finite qui, con ola ritirata dell’esercito, ma non questa. A questo punto, I romani galvanizzati da quell’esempio, iniziarono subito lo scontro, che si svolse secondo i canoni dei combattimenti fra un esercito regolare ed una orda barbarica disorganizzata. La cavalleria romana alle ali provocò quella Celtica, che attaccò. Tutta la massa della fanteria dei Galli, a questo punto, si lanciò in modo totalmente disorganizzato contro la legione romana, che la stava aspettando. Era il combattimento ideale per una formazione come la legione, formata essenzialmente da fanteria pesante. Scontro chiuso, poca manovra strategica, un mischia serrata in cui le mosse erano codificate, e l’immancabile prevalere dell’addestramento.

I romani vinsero e distrussero completamente l’esercito degli Insubri. La sconfitta di Clastidium fu devastante dal punto di vista morale. Fino a quel momento nell’immaginario celtico i Romani vincevano perché erano organizzati e tecnicamente avanzati. Non si discuteva del valore del guerriero, e tantomeno del capo, nel combattimento individuale. La vittoria di Marcello fece svanire il mito della invincibilità del guerriero celtico. Quando Marcello venne a sapere che Scipione era in difficoltà presso Mediolanum, si precipitò al suo soccorso e, appena fra gli Insubri corse la voce che Marcello era arrivato, tutte le tribù dell’area si arresero immediatamente senza combattere, e i Romani fondarono una nuova colonia a Cremona, con lo scopo di controllare il passaggio lungo il fiume Po.

Marcello ricevette uno dei più grandi onori che Roma attribuiva ai suoi generali, la Spolia Opima, ovvero l’onore di ricevere l'armatura, le armi e agli altri effetti che il generale romano aveva tratto come trofeo dal corpo del comandante nemico ucciso in combattimento singolo, da offrire al tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio.

 

Il diorama

Il diorama presenta la fase principale dello scontro. Sulle ali la cavalleria romana combatte contro la cavalleria ed i carri dei Galli, mentre la legione di appresta a ricevere la carica della fanteria. Di fronte ai due eserciti uno schermo di fanteria leggera celtica e di veliti romani cerca di rallentare il movimento delle truppe pesanti.

 

La legione manipolare

La legione consolare nasce attorno al IV Sec. a.C.. L’organizzazione prevedeva 30 manipoli, distinti in: 10 manipoli di hastati, giovani che formavano la prima linea,  10 di principes, gli uomini fatti che costituivano la seconda linea, e 10 di triarii, la terza linea  composta dai veterani più anziani ed esperti. I manipoli degli hastati e dei principes comprendevano ciascuna 120 legionari, mentre quelli dei triarii ne comprendevano 60.

Ogni legione aveva inoltre 300 cavalieri, divisi in 10 squadroni ciascuno di 30 uomini. Completavano la formazione dieci manipoli di velites, fanteria leggera che veniva schierata in prima linea per azioni di schermaglia e disturbo.

 

Il legionario romano era armato con una spada corta, il gladius, adatto al combattimento ravvicinato. Oltre questo, gli hastati ed i principes avevano il pilum (un pesante giavellotto formato per metà da un’asta di legno e per l’altra metà da un lungo gambo di ferro appuntito, mentre i triarii portavano l'hasta, una lancia lunga circa tre metri. La legione non combatteva da lontano, ma era addestrata ad attaccare e andare al corpo a corpo il prima possibile. I veliti iniziavano il combattimento con i giavellotti, il più delle volte provocando una carica da parte del nemico che avevano di fronte, ingaggiando i manipoli in prima fila. Una volta esaurita la spinta di combattimento della prima fila romana, i manipoli riuscivano abilmente a sfilarsi dallo scontro, per essere sostituiti da quegli della seconda, che  loro volta potevano essere sostituiti da quelli della terza. Nessuno degli avversari fu mai in grado di articolare il combattimento in questo modo: prima o poi il nemico, che non era in grado di sostituire le truppe in prima linea, cedeva e la battaglia era vinta. Ne conseguiva un inseguimento, sempre molto efficace, che completava la distruzione dell’esercito avversario.

 

L’arte della Guerra nel mondo celtico.

Quando combattevano fra di loro, i Celti ingaggiavano una sorta di combattimento rituale. Iniziava con una sfida fra campioni, di fronte alle due tribù schierata: prima i capi, poi i guerrieri più famosi, cominciavano ad insultarsi e dileggiarsi, e prima o poi dall’insulto si passava al combattimento vero e proprio. In qualche caso, se il conflitto era cosa di poco conto, la “battaglia” poteva anche terminare così. Se invece le ragioni erano più sostanziali, si passava allo scontro fra i due eserciti. L’esercito dei Celti era un esercito di fanteria: la cavalleria era solitamente utilizzata per aggiramenti alle ali, ma più spesso con compiti di esplorazione. I Celti avevano anche un certo numero di carri da combattimento trainati da cavalli, che potevano portare al massimo due persone, e fungevano sostanzialmente da piattaforma mobile per scagliare giavellotti. L’arte della guerra celtica era abbastanza semplice: una carica, alla massima velocità, per colpire con violenza il nemico. In genere funzionava, ma contro  eserciti regolari, come quello dei Romani, che avevano più linee schierate in profondità  e che erano in grado di sostituire “durante” la mischia i manipoli stanchi con manipoli più riposati, i Celti perdevano l’impeto e prima o poi si vedevano costretti a ripiegare. A questo punto i guerrieri in ritirata, stanchi e demoralizzati per non essere riusciti a sfondare il fronte nemico, si trovavano esposti al contrattacco romano, che invariabilmente concludeva la battaglia con grandi perdite per gli sconfitti.

 

Testo, miniature e realizzazione diorama: Fabrizio Ceciliani

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